Studio SALES di Norberto Ruggeri

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Stefano Arienti
Susino rosso
con un’introduzione di Alessandro Rabottini
un progetto di Diego Cassina e Marco Frignati con Norberto Ruggeri
PRIMOPIANO, Lugano
26 Novembre 2015 – 31 Gennaio 2016

“Io ho cercato in questi anni di dimostrare che si può fare arte, poeticamente, con un gesto minimo. Che quel gesto lì, anche un poco ottuso e magari ripetitivo è cruciale.”
Stefano Arienti

Conosco Stefano Arienti da molto, e in più occasioni ho avuto la fortuna di lavorare con lui, oltre a poter coltivare un’amicizia che si è intrecciata negli anni all’ammirazione che ho sempre nutrito per il suo lavoro. C’è stato un episodio, però, che mi ha fatto capire più cose del suo lavoro di tante e bellissime mostre che ho visto. Uno di quegli episodi che potrebbero ricadere nell’aneddotica, ma che ti fanno comprendere che nella frequentazione dell’arte non soltanto devi guardare tutto con attenzione, ma che devi saper guardare soprattutto con una certa semplicità.

Fino a qualche tempo fa, lo spazio del lavoro e lo spazio della vita per Stefano coincidevano: la sua casa di Milano, infatti, non era soltanto uno spazio domestico e uno studio ma, ho capito durante una mia visita qualche anno fa, anche un incredibile archivio. Anni di lavoro, infatti, se ne stavano ripiegati (letteralmente) in scatole e cassetti, arrotolati come si farebbe coi progetti di architettura, avvolti tra loro come si usa coi corredi. E non è un caso se la mostra che questo testo accompagna avviene in quella che, prima ancora che essere uno spazio espositivo, è una residenza privata, e che le opere abbiamo trovato una forma di accoglienza e di dislocazione tra gli ambienti della vita e della quotidianità.
La possibilità di contenere in uno spazio molto ridotto – come può essere un armadio, ad esempio – tante opere che, una volta installate, prendono metri e metri di spazio espositivo, è implicita nella natura di molti dei materiali che Stefano predilige, che sono materiali leggeri come la carta, la stoffa o il lucido da disegno tecnico, o supporti discreti come i libri e le cartoline. Tutte cose che possono in un certo senso “ritirarsi” quando non occupano lo spazio della mostra. Questa è una dimensione che può farci comprendere come l’economia dei mezzi che caratterizza l’opera di Stefano Arienti, quella che potremmo definire una “modestia” dei gesti e dei supporti, è il luogo dove in realtà si deposita una forma di intelligenza che contraddistingue l’arte; o meglio certe esperienze dell’arte italiana che rivivono profondamente nel lavoro di Arienti.
In questo senso l’arte di Stefano Arienti rivitalizza tanto la capacità di Alighiero Boetti di guardare alla realtà e assorbirla tutta per poi reiventarla, quanto quella magia del quotidiano e del mondano con cui Piero Manzoni investiva i materiali più refrattari.

Sin dai suoi esordi all’inizio degli anni Novanta, infatti, Arienti sembra essersi limitato a fare qualcosa di più simile in apparenza a un esercizio didattico per bambini che a un atto di pura creazione: ha scelto immagini che già esistevano e le ha ricalcate, o manipolate, piegate. Le ha tagliate e ricucite oppure ne ha esagerato certe porzioni o proprietà a discapito di altre. Guardiamo, ad esempio, Stanza ad Arles (1991-1994), un’opera realizzata a partire da una riproduzione in forma di poster dell’omonimo capolavoro di Van Gogh, sul quale Arienti è intervenuto con della plastilina, replicando la pastosità delle pannellate e assecondandole una per una, come a voler riportare all’interno dell’immagine quella materialità che la riproduzione fotografica ha allontanato. In quello che appare come un atto di ridondanza, Arienti esplicita una poetica dell’intimità e della memoria, una poetica della comprensione e dell’interiorizzazione. A guardarli da un certo punto di vista, il poster e la plastilina suggeriscono due forme di “trivializzazione” della creazione artistica e del suo apprezzamento: se il poster, infatti, è un gadget a buon mercato, un souvenir di ciò che si può ammirare solo in un museo, la plastilina coincide per molti con un ricordo infantile, con una delle prime esperienze legate all’atto del plasmare, quindi ai primi passi nell’esplorazione della creatività.
Il poster è una copia ma anche un sintomo di affezione, perché è uno strumento del ricordo (la dimensione del souvenir emerge anche nell’uso frequente di cartoline postali, sia come supporto che come immagine), e su questa copia Arienti interviene, a sua volta producendone una replica con un materiale legato più alla didattica che all’arte vera e propria, all’arte in senso “nobile”.

Nel 1969 Alighiero Boetti realizzava la sua opera Cimento dell’armonia e dell’invenzione, composta da venticinque fogli di carta quadrettata che l’artista ricalca a matita secondo venticinque diversi sistemi, suggerendo in questo modo che copiare sia un modo di inventare. Arienti ha fatto tesoro di questa lezione e l’ha trasformata in una pratica coerente e in un luogo di indagine profonda, esplorando quello spazio e quell’intervallo tra l’originale e la copia che sono lo spazio e l’intervallo dove agiscono il tempo e la distanza, la memoria e l’errore, il desiderio e l’approssimarsi della fine.
Quella di Arienti è un’arte dell’intimità e della comprensione perché fa sue cose che ama – sia che siano capolavori del passato sia immagini di sconosciuti pescate su Internet –, le assorbe e le trasforma, ne amplia l’esistenza e la bellezza. Che tutto questo passi attraverso gesti e materiali intrisi di quotidianità – come i libri e il polistirolo, gli elenchi del telefono e la vernice a spray – o profondamente legati alle capacità manuali e all’artigianato – come il tagliare e il cucire, il tingere un tessuto e il piegare la carta come si fa con gli origami – è un elemento che insinua, non senza gentilezza, quello che potremmo definire il progetto politico dell’arte di Arienti. Ciò che, infatti, ho poco prima chiamato “trivializzazione” è un qualcosa che, seppur con una natura molto più lieve e sottile di quanto questo termine evochi, appartiene profondamente al lavoro di Arienti. È un processo che redime cose spesso neglette o più semplicemente considerate banali – come l’immagine patinata di un tramonto sulla spiaggia o l’illustrazione di una pubblicazione scientifica – e restituisce loro dignità, come a dire che è lo sguardo che si posa sulle cose a fare la differenza. E lo sguardo di Stefano è uno sguardo che va al di là delle gerarchie di valore consolidate: è uno all’arte cosiddetta “alta” come alla decorazione, al valore del lavoro quotidiano così come all’eccezionalità del talento, alle testimonianze del passato come alla spontaneità delle relazioni umane, a ciò che è prezioso allo stesso modo che a ciò che è a buon mercato. In questo senso, l’arte di Stefano Arienti è un’arte dell’accoglienza e della restituzione, perché accoglie e trasforma, e nel fare questo apre un orizzonte di libertà e di immaginazione.

Alessandro Rabottini
23 Novembre 2015

Stefano Arienti, Susino rosso, 2016 (detail)