Studio SALES di Norberto Ruggeri

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FLAVIO FAVELLI

Riflessi sommari. E’ oro tutto quello che luccica

 

Dal 24 Novembre 2022 al 03 Febbraio 2023

 

Saverio Verini e Flavio Favelli:

un dialogo su Riflessi sommari. È oro tutto quello che luccica

 

Saverio Verini – Di fronte all’oro, gli occhi delle persone iniziano a brillare. Ogni persona interessata all’arte ha il proprio riferimento, più o meno colto, datato o a buon mercato: lo sfondo delle icone bizantine, la sezione aurea, il cesso di Cattelan e via dicendo. John Ruskin parlava di “imperituro splendore”, a proposito dell’oro.

Eppure, in un immaginario più ampio di quello legato alla storia dell’arte, l’oro è anche miraggio, falsificazione; qualcosa di attraente, ma anche corrotto, proibito, ambiguo. Il tocco di Re Mida, il Vello d’Oro rubato da Giasone, la statua d’oro fatta erigere da Nabucodonosor, il vitello d’oro adorato dagli ebrei, la corsa all’oro… Fino al perfido Goldfinger, che in un episodio di 007 tenta di sabotare la riserva aurea degli Stati Uniti, conservata a Fort Knox. L’oro ci porta quasi sempre lontano, a oriente come a occidente: un altrove esotico per generazioni di italiani, una promessa di felicità alimentata persino dai quiz e dai concorsi televisivi anni Ottanta, con ricompense che prendevano rigorosamente la forma di preziosi e insieme inquantificabili gettoni d’oro. Oro come il colore dei vassoi cartonati delle pasticcerie, oro come gli involucri di alcuni cioccolatini e altre cose che hanno il sapore di una quotidianità domestica, prosaica e, al tempo stesso, irriducibilmente straordinaria.

Ho l’impressione che in Riflessi sommari. È oro tutto quello che luccica queste diverse tensioni coesistano: il familiare e l’eccentrico, il popolare e il sofisticato, l’antico e il contemporaneo, il prezioso e il dozzinale. Tutto sotto il segno dell’oro. Da dove deriva questa attrazione?

 

Flavio Favelli – L’origine credo risieda nella gran varietà di oggetti, cose e materiali che erano a casa dei miei nonni a Bologna. Le scatole di latta di sigarette e dolci che si conservavano come contenitori avevano gli interni usurati e segnati con rigature, abrasioni e macchie che facevano disegni e figure e forme strane e poi luccicanti. In un ambiente ovattato, ordinato e di cose fatte per bene, i segni e graffi di queste superfici mi hanno rapito, erano le uniche irregolarità di un mondo ingessato, di buon gusto. Erano pitture nascoste, sfregi inattesi su monocromi anonimi, quadri dormienti e non riconosciuti. Sono stato un interlocutore di questi fondi di scatolame che cessavano di essere muti e sordi e si aprivano a un racconto. Quindi il dentro e la parte nascosta, come il retro degli specchi che hanno patine dorate irraggiungibili e irriproducibili di ori ricchi, pallidi e brillanti, regali e ducali, soffusi e lucidi insieme. Sono velature e appannamenti che vestono questi fondi oro fasulli e li fanno unici. Questa unicità ha una natura evocativa, lambisce la psiche e ci fa parlare con i nostri retri. Questi ori di latta e di specchi scaduti e rigati che fanno riflessi fiochi, e per questo più fondi, riescono, per merito della loro origine usata, riusata e rigettata, ad essere inediti, inconsueti e fanno nuove tensioni.

 

SV – Confesso, specie in passato, di aver avuto un sentimento contrastante nei confronti del processo di realizzazione delle tue opere: sezionamenti, cancellature, rotture, innesti, spesso applicati a oggetti (mobili, insegne, specchi, bottiglie, piatti…) a loro modo antichi – in alcuni casi di ottima fattura –, con una propria storia. Mi è sempre sembrato un gesto oltre l’iconoclastia, quasi violento, capace di procurarmi lo stesso effetto del rumore delle unghie che graffiano una lavagna. Poi, qualche anno fa, ho capito che questa pelle d’oca che le tue opere mi suscitavano era proprio quello che cercavo e che ancora oggi mi intriga della tua pratica. Trovo che tu abbia un atteggiamento piuttosto radicale rispetto alla produzione e alla fruizione dell’opera d’arte contemporanea: una posizione che mi sembra contraddica i cliché (“la bellezza che salva”, per dirne uno) che spesso sono associati al ruolo e alla funzione dell’arte stessa.

 

FF – Credo di oscillare fra opere in qualche modo formalmente “belle” e opere più “radicali”, ma preferisco dire “stordenti”. Senz’altro il nascere a Firenze e andare a messa con la nonna davanti ad un quadro di 7 metri di Guido Reni ha il suo peso. Amo i rottami e le discariche, nulla a che vedere con la noiosa e inutile storiella del riciclo e riuso. Giorni fa ho visto la mostra Recycling Beauty a Milano e la pratica di prendere pezzi già fatti da altri, quindi predazione, per farne altre cose, mi appartiene. Certo che è un gesto irriverente, non so che tipo di consapevolezza avessero nel Medioevo a usare un pezzo di tomba romana per farci un mosaico, ma quando vedo una certa cornice in oro zecchino o una carcassa di lavatrice o un piatto finemente decorato non faccio distinzione, perché il punto è creare una nuova immagine, una nuova cosa, spesso in “disaccordo” o “di spirito contrario” all’oggetto stesso. Da un certo punto di vista lo “rovino”, lo taglio, lo assemblo, lo contamino, ma non è questo lo spirito della nostra cara civiltà dalla Bibbia in poi? Hai scritto “unghie che graffiano” e la pratica di graffiare e raschiare, diciamo pure spellare, il retro degli specchi (i begli specchi molati) è segnare irrimediabilmente uno specchio, ma per scoprirne il retro, che poi sarebbe l’occhio del mondo – un occhio così osceno che in chiesa gli specchi non entrano. Direi che queste operazioni sono uno spingersi oltre il limite che dà l’artigiano e l’industria, è questo il ruolo dell’artista (ecco perché poi le collaborazioni fra artisti e industria sono delle sciocchezze, perché sono mondi che hanno fini molto differenti e non possono incontrarsi).

 

SV – Sì, trovo che questo aspetto di cui parli sia una chiave della tua poetica: partire da un gesto di negazione dell’oggetto, quasi una forma di ribellione rispetto a un ordine costituito, in questo caso alla logica del “decoro”. Eppure, in questi atti di insubordinazione, c’è sempre una dinamica costruttiva, perché quando modifichi radicalmente un oggetto (mutilandolo, incrociandolo con altri e via dicendo) lo fai sempre per generare altre immagini, altre forme. Quest’atteggiamento, come tu stesso ricordavi, ha a che vedere con la tua biografia; ecco, questo mi interessa: capire in che modo vedi il passato e se il fare arte è per te un tentativo per esorcizzarlo o per evocarlo (o magari entrambe le cose).

 

FF – Direi entrambe le cose, è un equilibrio precario. La cena di Natale della mia famiglia, una delle poche che siamo riusciti a fare, era, nella sua capienza massima, con cinque persone. Tanto tragica, quanto indigesta, tanto rassicurante, quanto attesa, un tempo messianico che alla fine non arrivava mai perché avrebbe sicuramente rovinato tutto; la cena di Natale non era la Vigilia, era la celebrazione del benessere del presente, delle sue sacre regole e maniere, ed era più intensa del pranzo, perché alla sera i lampadari e le abat-jour facevano brillare tutto. La sala da pranzo dei miei nonni era un’oasi di piacere, emanava un’idea di ricchezza, di potere, di lusso, quest’ultimo certo ammonito, affinché non scadesse in una banale ostentazione. Sono i luccichii e i riflessi lontani sbiaditi di un passato remoto domestico, che non svaniscono, sono degli spiritelli che ammantano certe cose e così si tenta di domarli e aizzarli insieme.

 

 

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